Oltre 1.300 aziende hanno almeno un trust azionista, nell’80% dei casi socio di controllo
Sono passati quasi 34 anni dalla firma della Convenzione dell’Aja, con cui l’Italia riconosceva come trust tutti «i rapporti giuridici istituiti da una persona, il disponente – con atto tra vivi o mortis causa – qualora dei beni siano stati posti sotto il controllo di un trustee nell’interesse di un beneficiario o per un fine specifico». Da allora, grazie anche all’opera divulgativa svolta dal professor Maurizio Lupoi, l’utilizzo di quest’istituto di diritto anglosassone è diventato sempre più frequente anche in Italia. Tuttavia, al di là del progressivo superamento delle difficoltà giuridiche che l’istituto comporta, l’Italia sconta ancora alcuni «gap» culturali che ne rallentano l’impiego.
Per Francesco Giuliani, partner di Fantozzi & Associati «se il potere di gestire e disporre dei beni conferiti permane in tutto o in parte in capo al disponente, il trust è considerato fiscalmente «inesistente» (o interposto), con la conseguenza che i redditi (formalmente) prodotti dal trust continueranno ad essere attribuiti allo stesso disponente. Ciò che si auspica, dunque, a oltre trent’anni dall’ingresso dell’istituto nel nostro ordinamento, è l’abbandono di reticenze e furbeschi raggiri, per una valorizzazione del trust, anche in ambito imprenditoriale, quale valido strumento per garantire, ad esempio, la continuità aziendale preservando il patrimonio dell’azienda dalle, spesso disastrose, querelle tra eredi».
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